lunedì 4 dicembre 2006

La lezione di Peter Brook (parte II)

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. Ma i sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare sui non-francofoni. Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena ad incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, e il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di far fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles. Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, e quel nero non ha nulla di incidentale e casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema Di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo cosa significa vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia - e tu sei lì a ridere, e il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive ed unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e - anche se ridi con Styles e non di Styles - hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina. Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford e, con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio di fotografo. E i clienti passano da lì, e Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni in quelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da ascoltare. Il dramma sta tutto nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perchè se lo catturano lo riportano in Sudafrica, la sua terra, e si troverà per strada ad elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia. Sizwe Banzi è grande, grosso, e la disperazione lo incupisce, e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, e si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra – (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo) – e Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti & dilemmi interiori & dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi diventa Robert, un uomo di colore con i documenti. La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne ed ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente a dare l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, e i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante. È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione. Sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia: ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, e lo vede come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere freddo e in mezzo alla strada. Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.

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