giovedì 30 novembre 2006

La lezione di Peter Brook (parte I)

Di Peter Brook, fino a un paio di settimane fa, non ne sapevo molto. Conoscevo il nome, che era un regista teatrale di fama mondiale, che l’ammirazione e gli applausi non finivano mai di fioccare dalle sue parti – insomma, è chiaro che se non vai a vedere con i tuoi occhi, quello che ti arriva è puro marketing e personaggi costruiti ad arte e l’incenso dei comunicati stampa. Così, sono andato a sentire una sua lezione al Piccolo Teatro Studio di Milano. Arrivo che è già pieno. I posti migliori sono tutti occupati. Gli estimatori tubano, e sussurrano, e ondeggiano, e si dispongono senza creare disordine. Il caldo in sala ha sicuramente una strana connessione con la loro temperatura emotiva. Non puoi evitare di leggere la parola Maestro sulle loro labbra. Poi, arriva Peter Brook. Se non l’hai mai visto, ti sorprendi ad osservare questo vecchiettino che cammina in mezzo agli applausi, very british nella fisionomia e nel portamento, ma a ottantanni suonati con jeans, sneakers ai piedi e il giubbotto di pelle nera. Sembra Fonzie, da grande: quando ha perso capelli ciuffo brillantina, e la vita gli ha già dato tutto, ed è un portatore sano di Esperienza. Si siede su una sedia da regista. E sta esattamente al centro della nostra attenzione. Alla sua sinistra: un tizio con il maglioncino dolcevita da intellettuale anni sessanta più scarpe di vernice nera che brillano mentre fa domande lunghissime a Brook, alcune davvero imbarazzanti, tipo quella sull’apporto dato dagli attori neri al suo teatro. Alla sua destra: la traduttrice, capelli lunghi e stivali, che ogni tanto, invece di tradurre quello che sente, sorride e annuisce – come se Peter Brook si rivolgesse direttamente a lei, ignorando la platea – e mentre annuisce e sorride, interpreta, ma delle volte interpreta male e si scusa, torna sui suoi passi, e riporta le parole per quello che sono, con il loro significato preciso e nulla più. Comunque, niente di meglio che avere una traduttrice dalla nostra. Peter Brook, divertito e completamente a suo agio in mezzo ad estimatori ipnotizzati, avverte che la sua lezione subirà la seguente variazione linguistica: l’italiano per i saluti e l’introduzione, l’inglese per gli argomenti terra terra, il francese per le discussioni intellettuali. Il pubblico ride. Gli stereotipi linguistico-culturali sono sani e salvi perfino qui, ma il modo in cui sono presentati è chiaramente ironico, ed è una cosa del tutto fatata godere degli stereotipi mentre li evidenzi e li smagnetizzi con l’ironia iniziale. Non faccio in tempo ad uscire da questo pensiero, che Peter Brook, il suo inglese lento e pacifico, riempiono lo spazio vuoto del teatro. L’attenzione è alle stelle. E neanche le domande lunghissime e simil-intellettuali del tizio sembrano rompere l’attenzione. Solo Peter Brook a raccontare le sue avventure: tipo quella africana, dove ogni giorno, lui e la sua troupe, entrano in un villaggio diverso, e senza conoscere la lingua, senza afferrare la cultura, con forme teatrali che giocano principalmente sulla gestualità e sul corpo, lì a tentare di comunicare e condividere esperienza & umanità & altri modi di codificare la vita. E l’idea di Peter Brook è che per arrivare al cuore delle cose, devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude - come il teatro, che non ha bisogno di scenografie grandiose, e abiti di scena strafichi, e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio fino in fondo, con tutto il loro corpo – l’energia del corpo, l’esattezza mimetica del corpo. Ovviamente, è in francese che dice queste cose. Le dice prima di spedirmi in testa una frase che non dimenticherò più: “Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate”. Incasso il colpo. E rimango a pensare a questo mentre qualcuno chiede qualcosa sul teatro cinese e su come diventare registi - domanda che non ha risposta se non: più ci date dentro con la regia, più imparate: le mode, i maestri, roba con la data di scadenza. Il pubblico in trance. Silenzio e concentrazione che dura fino a quando Peter Brook non si alza, e corre a dirigere le prove prima dello spettacolo, e gli estimatori con la parola Maestro tra i denti e le mani rosse di applausi riaccendono i telefonini.

lunedì 27 novembre 2006

Diario del bordo: l’Università come Esperienza del Limite

Ora che è tutto finito, ora che il Recinto dove giovani menti pascolano e ruminano teoria non mi contiene più, ora che non mi ci vedo più a belare dentro il recinto e a covare per giorni le idee degli altri, solo ora mi rendo conto di cosa è stata l’Università, e di quanto ho pascolato e ruminato e belato e covato. Appena metti un piede fuori, e il mondo si dispiega incominciando proprio da sotto il tuo piede, e non è solo Orizzonte quello che hai davanti, ma praterie solcate da nuovi Confini - altre forme per chiudersi e protendersi e proteggersi e definirsi - ricordi che non era affatto uno spazio come gli altri, quel recinto. Che ci avevi vissuto bene, lì dentro. E che brucare Conoscenza in compagnia non era poi male: uno strano modo di coltivare l’Amicizia, e affinare il senso della condivisione. Ma capire il recinto, non ti era dato mentre ci stavi in mezzo. Lo vivevi, lo percorrevi nella sua circonferenza, esploravi il centro e la periferia del recinto, pensando che un giorno ne avresti avuto una Visione D’Insieme. E la visione d’insieme ti raggiunge adesso, quando il ricordo è già pulito, tutto in ordine, senza una macchia, ricordo che ti appartiene fino in fondo perchè definisce l’Età in cui brucavi e ruminavi e tutto questo ti bastava. Così, prima di ogni altra cosa, grazie alla visione d’insieme - un’immagine ripresa dall’alto, quasi una ricognizione aerea - capisci che nel particolare recinto dell’università quello che vivevi era l’esperienza del limite. Soprattutto: il tuo limite. Mettiamo che sei in un’aula universitaria, e che intorno a te il paesaggio umano si dispone caoticamente lungo l’arco del semiciclo, e che l’aria degli studenti vira secondo i casi tra l’assonnato e il principio d’inerzia, e che qualcuno dei ragazzi se ne sta ferocemente in silenzio e in disparte mentre altri con modi new age raccontano di quanto è easy e sfrenata e maledettamente coinvolgente la loro vita sessuale, e che di punto in bianco appare un professore con la barba a prima vista non curata e il giusto tono di colore della cravatta, professore che si toglie la giacca, si arrotola le maniche, prende il microfono, dice Buongiorno, e poi senza darti il tempo ti sorprende alle spalle con il Modello Semiotico-Enunciazionale e tutta la storia del Testo e dei Simulacri Testuali. Mettiamo per un attimo che sia andata così. Quella, come mille altre occasioni, è stata un’esperienza del limite: cioè hai messo alla prova, e hai subito confermato, la finitudine e la ridotta dimensione del tuo Sapere. In pochi secondi, hai capito di essere letteralmente limitato, con in testa un sapere piccolo così, che non faceva impressione a nessuno. E per evitare di sentirti scientificamente Nessuno – una meteora solitaria ed invisibile ad orbitare ellitticamente intorno a Pianeti smisurati – cominci a concentrarti e prendere appunti e recuperare il tempo perduto. Lasci la tua penna scorrere mentre la tua giovane mente assorbe e comincia a covare. E tutto il tempo speso a covare e ruminare è fondamentale – di solito nel recinto si pascola per qualcosa come cinque o sei anni, una vita intera, un tempo davvero infinito. E quello che all’inizio si presentava come un limite appare più in là come una soglia: una porta aperta su un nuovo Campo Di Sapere. Un nuovo campo di sapere in cui entri timoroso, con le prime timide incursioni, e poi ci scorazzi in lungo e in largo, sfidando Punti Di Vista & Autorità In Materia. Questo meccanismo è il cardine dell’Università: applicazione e metodo fanno dei Limiti tante Soglie da attraversare. Ovviamente, non tutti i limiti, a lungo andare, si dimostrano soglie. Io, l’Economia, non l’ho mai potuta capire davvero. In quel campo di sapere, ci sono andato sempre con qualcuno che mi accompagnava, e la visita non durava che il tempo di un esame. È un territorio tutto particolare, l’economia. Un posto fantasmatico e vagamente schizoide nei confronti della vita quotidiana. L’astrazione elevata a potenza. (Sono convinto che molti provano questo nei confronti della Semiotica, o di qualsiasi altra scienza, e questo la dice lunga sulla persistenza dei limiti). Ma l’esperienza dei limiti non finisce mica qui. Mettiamo che molto tempo fa un tuo limite è diventato una soglia, e che quella soglia l’hai attraversata così tante volte che all’ingresso c’è il tappetino del casa-dolce-casa ad accoglierti, e che in quel campo di sapere ti sei spinto così lontano da arrivare a vederne i bordi e i confini. Questa volta è l’esperienza di un Limite sia interno sia esterno a te stesso. Il tuo limite su quel sapere coincide con un limite più generale - orlo del sapere su cui molti si sono avventurati. Di solito, stai sul quel bordo quando scrivi la Tesi. E le tesi, nei casi migliori, assomigliano ai diari del bordo, scritti da coloro che si sono spinti oltre e vedono schiudersi nuove terre e continenti lontani. L’esperienza del Limite Che Si Muove mentre tu stesso ti muovi. Mica kilometri. Solo pochi passi. Ma è lì che capisci che il recinto che ti ha ospitato intere stagioni ha fatto il suo tempo. È il richiamo di nuovi, e più avventurosi, e meno battuti territori. È quel Miraggio a chiamarti fuori.

venerdì 24 novembre 2006

La compagnia delle compagnie!

PRIMO PENSIERO SGRADEVOLE RIGUARDO AL VIAGGIO DI LISBOA 2006 LA CUI ABILITÁ (DEL PENSIERO) STA NEL NON FARSI DIMENTICARE, E ARCHIVIARE, TRA GLI ALTRI PENSIERI SGRADEVOLI E PRIVI DI PATHOS:

e indovina, indovina un po’: chi viene a cercarti un secondo dopo che sei smontato dal cielo, e l’aereo è filato liscio sulla pista, e i passeggeri battono le mani a svariati decibel per ringraziare il comandante pilota Lufthansa di aver depositato a terra il prezioso carico umano affidatogli parecchi kilometri & kilometri prima? La tua compagnia telefonica! Mica un essere umano dalle sembianze perfettamente riconoscibili a cui tu, tempo fa, hai concesso affetto, o emozioni autentiche, o anche e semplicemente una parola buona al momento giusto. Niente di tutto questo. Solo, la tua compagnia telefonica. Che si ricorda di te, un secondo dopo che sei sbarcato in un paese straniero, per salutarti, e stringerti cordialmente la mano, e avvisarti - con una lagna che sa di merketing & burocrazia & ho-tanta-voglia-di-infilarmi-nel-tuo-credito-residuo – che puoi fare tutte le telefonate che vuoi, e addebitarle prontamente sul conto del tuo destinatario, con un tono proveniente dalle più recenti avventure della new economy e del post-capitalismo avanzato – che in quanto avanzato, è molto più accattivante e suadente. E tu sfatto, su una poltrona dell’aeroporto che svela le proprietà ortopediche del granito, e il telefono che ti trilla in tasca, due volte, e un paio di messaggi, suadenti e accattivanti, che ti stringono la mano e ti danno molte pacche sulle spalle, del tipo «ci pensiamo noi a te, amico», a pensare che ti seguirà ovunque e per tutta la vita, la tua compagnia telefonica. Che ti saluterà sempre, e in anticipo, rispetto a qualsiasi altro essere senziente e affettivamente ben identificato. Che l’entità post-post-umana e tentacolare e interplanetaria della tua compagnia telefonica allungherà, su per i crinali del tuo pensiero, le ombre degli svantaggi della globalizzazione: loro sapranno - SEMPRE - dove sei, a che ora, e in quale bar dell’aeroporto aspetterai la tua fetta di torta e il tuo caffé prima di svenire o dire cose di cui, un giorno non lontano, i tuoi compagni di viaggio proveranno a chiederti il senso – sempre che ci sia, e sia articolabile – sempre che i tuoi compagni di viaggio non svengano prima che tu abbia proferito verbo.

MEGLIO, COSÍ, CHIUDERE QUI PRIMA DI PENSARE MOLTO, MOLTO PEGGIO. FINE DELLA VERBALIZZAZIONE DEL PENSIERO SGRADEVOLE E PRIVO DI PATHOS.

martedì 21 novembre 2006

Truman Capote - A sangue freddo: indicazioni sul ruolo degli intellettuali

A sangue freddo, è il libro che sconvolse l’America. Lo scrisse Truman Capote, e racconta la storia di una famiglia massacrata a Holcomb, Kansas. Poteva rimanere cronaca per le pagine dei giornali, quella storia. Un trafiletto incastrato tra articoli lunghi, degni di nota, del «New York Times». Ma non andò così. Quelle righe le lesse Capote, nel suo salotto, e ne rimase folgorato. Capì subito che, in quelle righe, si nascondevano almeno due cose: materiale a sufficienza per scrivere un romanzo, e la possibilità di strappare Holcomb, un posto da qualche parte nel Kansas, dall’anonimato. Così, lo scrittore Capote, celebre per il suo Colazione da Tiffany, ritaglia l’articolo, chiama il «New York Times», si fa affidare il reportage di quella storia, recluta Nell Harper Lee come assistente e guardaspalle, e parte per il Kansas. Non è che sia ben visto, uno come Truman Capote, nel Kansas. Abiti stravaganti, maniere affettate, un suono della voce infantile, ostentato come segno di eleganza e differenza, stridono con il rigore calvinista di Holcomb, delle persone che lì vivono. Ma in quella sperduta parte del Kansas, rappresenta New York, Truman Capote, le sue follie, il suo incanto, e non tarda ad essere accettato. Per questo, quando è molto più facile scavare, Capote scava il cuore di Holcomb, e piano dissotterra storie, umori, indizi, in quel pezzo d’America, tutto ciò che avesse a che fare con il massacro che la cronaca nera del «New York Times» del novembre 1959 gli consegnò un giorno.

Il film parte da qui. Da uno scrittore, sullo sfondo grigio del Kansas, che insegue una storia. Bennet Miller, regista, ricostruisce gli anni ’50 di quella parte del mondo. E lo fa con precisione, senza una sbavatura. Costruisce Holcomb, e il suo grigiore, intorno alle gesta di Truman Capote. E in quella perfezione, si nasconde, Miller, senza farsi vedere, notare, come se la storia andasse da sé, seguendo Capote. Qui, in questo mimetismo, la forza e la debolezza del film. Forza: perchè Miller dispiega con maestria il mondo, i colori, in cui l’attore Philip Seymour Hoffman, Oscar 2006 per la Migliore Interpretazione Maschile, dà prova della sua bravura, della sua capacità di aderire alla perfezione ai gesti di Capote, al suono della sua voce, al suo modo di pensare e gestire le situazioni della vita. Ma allo stesso tempo, debolezza: perchè il film non dice di più di quello che vediamo, non ci dà modo di leggere in profondità un’epoca, un luogo, poiché è già tutto in ordine, spiegato, con il suo inizio, la sua fine, e in mezzo un attore da applausi che ridona corpo e vigore a Truman Capote. Cos’è, questo film, allora? Una lapide alla memoria di Capote, si potrebbe pensare. E anche qualcosa di più.

Forse c’è veramente dell’altro, in questo film. Forse potremmo pensare, Truman Capote – A sangue freddo, non come un film, ma come un monito: un consiglio, un’esortazione, un ammonimento, ad una classe specifica di persone. Gli intellettuali. Gente che per mestiere pensa, scrive, dice al mondo come il mondo dovrebbe girare. Schiacciamo per un attimo rewind nella nostra memoria e portiamo il film a capo. Truman Capote, scrittore e intellettuale, tra le infinite notizie che passano tra le righe e le pagine dei giornali, ne sceglie una, e la segue. Non ha paura, Truman Capote, di scendere dentro la realtà, di sporcarsi le mani in quella realtà. Arriva in un posto sperduto nel Kansas, e prova a mettere ordine agli eventi: per spiegare la realtà, per renderla chiara: per capirla, se comprenderla è impossibile. E, con la figura di Truman Capote che giganteggia sullo schermo, pensi che questo dovrebbero fare, gli intellettuali. Sporcarsi di realtà. Scavare la realtà. Dissotterrare dal cuore della realtà gli elementi, gli indizi, gli intrecci, che possono tornare utili alla comprensione del mondo. Forse, non è del tutto inutile, questo film, se ci ricorda questo, piuttosto che il tormento di uno scrittore che crede nella sua storia, nella sua scrittura. Servono idee, gente che le faccia circolare. È un compito mica da poco, essere intellettuali. Non è uno status da fregiare alle cene di gala. È un dovere.



domenica 19 novembre 2006

Di arte, mucche e altri bovini

La prima notte che arrivo a Lisboa, in giro per le strade, le piazze, è pieno di mucche. Ma non sporcano, non si muovono, tantomeno muggiscono. Stanno lì, in perfetto stile bovino, come se non ci fossero. A ruminare il tempo. Quelle mucche, Il Qui Presente, le ha già viste, e fotografate, a Parigi. Sono statue raffiguranti mucche, simulacri di mucche affidate ognuna ad una artista che ha potere contrattuale sulla mucca medesima e la decora/dipinge/affresca come meglio crede. In Francia, quella cosa lì, la chiamavano VACH’ART: l’arte delle mucche: e le statue erano disseminate dappertutto, nelle mise più stravaganti – ce n’era persino una a reggersi su due zampe, con tanto di tutù rosa, e un’espressione classica da danza classica, nonostante mansueti occhioni bovini. A Lisboa, lo stesso. Da quanto avevo letto, tempo fa, queste mucche transumano da una grande città all’altra. Hanno già compiuto il giro del mondo, forse. E stanno creando uno dei casini più pazzeschi della storia della zoologia. Molti finiranno con il credere le mucche animali migranti piuttosto che esseri stabili, sedentari, impiegati nei migliori caseifici. Comunque. La questione è un altra. Da qualche tempo si registra un movimento inverso. Prima erano le persone a muoversi verso l’arte, ad entrare nei suoi sistemi, ad accettare le sue tassonomie, a visitare i grandi luoghi di culto dell’arte: i musei. Oggi è il contrario. È l’arte a muoversi verso le persone, a scovarle nel loro ambiente quotidiano, a seguirle, catturare la loro attenzione. È come se l’arte, in uno scatto di sopravvivenza, avesse voluto abbandonare quelle grandi bare che sono i musei e la loro aria da lutto perenne. Il Bairro Alto, altro quartiere storico di Lisboa, a due passi dal centralissimo Chado, sembra confermare tutto questo. Ogni parete del quartiere è un fitto mosaico coloratissimo di segni, scritte, graffiti, stencil – figurine bidimensionali tracciate in vernici di solito mono o bi-cromatiche. È una tela a cielo aperto, il Bairro Alto, tela che si modifica e cambia giorno dopo giorno. E l’arte che si respira lì, proprio come le mucche, è molto pop, vagamente vintage, quasi tutta anti-, e molto molto post-: post Sessantotto, Ideologie, Avanguardie. Ed è la stessa cosa che ritrovi in giro per tutte le città del mondo. Come se ci fosse un movimento unico che abita le Reti e comunica e si sfida a distanze impensabili. Un’arte popolare molto globalizzata, in rotta di collisione con le accademie, che mastica fumetti e cinema, e che torna prepotentemente al figurativo dopo anni tragici di astratto e finti sacerdoti espressionisti e cagate simili. È arte che ritorna a dire qualcosa, a sfidare qualcuno, a porsi in contatto con persone comuni e con il loro mondo fatto di consumo & mass-media & stress & lavoro precario & vita incerta. Tecniche a parte, è l’idea formalizzata nel modo migliore, quella che si ricorda. Perchè, forse, più di ogni altra cosa, sono idee i segni, le scritte, i graffiti, gli stencil, e le mura immense enciclopedie del paradosso e del controsenso. Così, torna a respirare l’arte, di nuovo, chiamandoci direttamente in causa, interrogandoci e mettendoci alla prova. Nei musei, tra tanto splendore, sacerdoti e liturgie funerarie, di sicuro, i bovini, in coda e mansueti, eravamo NOI.

venerdì 17 novembre 2006

Punctum: istruzioni per l'uso

É il 1980. Roland Barthes non lo sa, ma scrive il suo ultimo libro. Il titolo è: “La camera chiara. Nota sulla fotografia”. Ovviamente, non è un libro qualsiasi. Non tanto perchè è l’ultimo di Barthes, non è questo a renderlo prezioso. Piuttosto perchè in quelle pagine è custodita, per sempre, un’illuminazione. Ci sono due modi per capire se un libro, il suo autore, sono fondamentali per noi. Il primo modo è di natura numerico-statistica: si può provare a contare il numero di volte che quel libro è citato, raccontato, consigliato, poi redigere statistiche e classifiche, e alla fine vedere quale libro riposa in cima a tutti quei numeri. Il secondo modo è più sottile, meno evidente: aprire il libro, leggerlo fino in fondo, e scovare tra una riga e l’altra modi esatti di nominare l’esperienza umana. I grandi libri, i loro autori, fanno proprio quello: nominare le esperienze, dare un nome alle cose. Se le cose hanno un nome, puoi conoscerle, da loro puoi difenderti. Sottraggono la conoscenza all’indeterminatezza, i grandi libri, i loro autori. Nomi precisi, con caratteri neri e indelebili, dove prima c’era una mappa bianca, senza alcun riferimento. L’esperienza umana, la consapevolezza dell’esperienza, sta tutta nella presenza di quei nomi inscritti sulla mappa.

Così, nel suo ultimo libro, Barthes formula per la prima volta due parole: studium e punctum. Provengono dal latino, quelle parole. E, nella loro sinteticità, definiscono il rapporto singolare che scaturisce dall’incontro dell’uomo con il mondo. Lo studium è il nostro accostarsi disinteressato al mondo: “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, senza nessuna intensità”. Mentre il punctum è il nostro concedersi al mondo quando il mondo si scaglia su di noi in tutta la sua potenza. È mondo che ferisce, il punctum , che percorre tutti i sensi, che ti turba, che esplode e deflagra dentro di te per l’intensità di quella particolare esperienza. Dice Barthes a proposito: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa a fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione”. Prova a pensare a tutte le volte che vedendo un film, sentendo della musica, vivendo una situazione, qualcosa, senza spiegazione, all’improvviso, ti ha lasciato una sensazione fortissima di godimento, o al contrario di dolore. Quello è il punctum: quando tu e il mondo, nell’esperienza del mondo, diventate una cosa sola.

Questo blog, così, vuole essere questo: un elenco ragionato di questi momenti di intenso piacere o dolore durante la mia esperienza del mondo. Proverò a capire e comprendere perchè qualcosa, qualcuno, nel bene o nel male, mi ha colpito. E se non riuscito a capirlo e comprenderlo, semplicemente, lo racconterò. È una cosa molto soggettiva, il punctum. Ognuno puoi avere i suoi, nelle situazioni più diverse. Quindi, abbiate pazienza con me. Se qualcosa che racconto non vi quadra, scrivete pure. I commenti sono a vostra disposizione.