martedì 19 dicembre 2006

Tutto quello che Jean Michel Basquiat non avrebbe mai osato pensare, forse

È strano. Ma entro timoroso, alla Triennale di Milano, dove è attaccato sui muri tutto ciò che rimane di Jean Michel Basquiat. Lì c’è il suo sguardo, la sua mano, il suo tempo, una quantità di tempo non calcolabile, speso a sfregiare superfici e mischiare colori e incidere il suo nome, in lettere capitali, sulle pareti della Storia. Nei suoi quadri, quello che noti è: teste, ossa, corone, scale, macchine e il semaforo impazzito di colori, che ti blocca lì, un po’, e ti lascia passare oltre, non senza uno stormo di pensieri in testa, non senza la ruggine e lo sfascio del mondo tra i pensieri. In mezzo ai quadri, ci sono le foto, ma anche i video, piccoli spezzoni di vita impressa su qualche pellicola, e lì Basquiat a camminare, e mettere sotto spray interi quartieri, con frasi lunghe, veloci, affilate e paradossali. Non è che le scrivesse dappertutto, le frasi. C’erano dei posti che gli facevano più gola. Le pareti intatte delle gallerie d’arte, per dirne una. Sapeva che prima o poi sarebbe finito lì, in quel nido protetto, in quel covo di affaristi. E intanto, anche se nessuno conosceva il suo nome, lasciava il suo segno, la sua ipoteca sul futuro. E le foto, i filmati, con tutto quel movimento, s’ingegnano parecchio a riportarlo in vita. Ma se vuoi sentire ancora J. M. Basquiat, devi tornare ai quadri e bruciare la tua visita lì davanti, anche se la schiena e le gambe concedono poco. Così ci torno, ci cammino in mezzo, tra i quadri vedo richiami, e connessioni, e la purezza lampeggiante e senza tempo del blu, del giallo, del rosso, del nero. Ma non sono l’unico presente, nelle sale. Altre persone ronzano lì dentro, sistemano gli occhiali, si fanno avanti per guardare meglio, e poi tirano indietro tutto loro stessi, non solo per vedere il particolare in un ampio insieme, ma per sfuggire alla contaminazione, non lasciarsi toccare dalla ruggine e dallo sfascio del mondo. È una sensazione che si addiziona al timore di entrare dove è attaccato ai muri, Basquiat. E la sensazione si fa più forte, e solida, mentre osservo lettere dipinte praticamente su ogni quadro: ogni quadro una parola, o lettere tremolanti, o vocali decise, o nomi e titoli di dischi. La cosa davvero esplosiva è che ti sembra di stare per strada, quando è un museo che ti racchiude, con le sue forme e la sua eleganza e l’immacolato candore delle superfici. E non solo in strada, sfiorando palazzi enormi graffiati di spray: ma anche nel cesso di un qualsiasi posto, dove qualcuno, nonostante l’odore, ha preso un pennarello e ha cominciato a segnare le pareti, la porta, in un modo osceno, senza alcuna accademia alle spalle. Jean Michel Basquiat, sicuro, conosceva tutto quello. E per molto tempo, lui stesso, prima di finire nelle gallerie, tra i party trendy e le tartine in bocca agli speculatori di Wall Street, aveva lasciato la sua impronta su treni, metropolitane, palazzi, dovunque l’arte potesse ritornare graffio primitivo ed energia preistorica, con zero incassi finali: solo la gloria minuta di vedere il tuo nome, le tue figure, incise da qualche parte, sul grigiore del mondo. Quella cosa, deve essergli rimasta in testa, fino alla fine. Ed io la avverto in pieno, mentre Basquiat è attaccato al muro. Così come l’ho sentita, tempo prima, ad una mostra di Andy Warhol, anche se Warhol lavorava non sull’immaginario osceno e degradato delle strade, ma su quello luminoso e abbagliante della pubblicità, della tivù, dei prodotti per le masse. Hanno riversato le strade e le luci del mondo, la periferia e il centro del mondo, nei musei, quei due. E hanno finito per abbattere, una volta per tutte, l’idea che i musei siano una Riserva Indiana, un posto dove salvaguardare genio e sgregolatezza ad Uso & Consumo del mercato dell’arte. Come piccole candide bomboniere, le istituzioni museali, scintillanti in mezzo al fango della vita quotidiana. Solo che Basquiat e Warhol, con le loro opere, hanno spedito quel fango dentro le bomboniere, e macerie che ci appaiono bellissime, e rovine che riteniamo commoventi. Hanno dato una forma chiara - esteticamente apprezzabile, sicuramente riconoscibile - alla cenere e ai lustrini del mondo: ed è stata questa la loro abilità. Ed io, in mezzo alle loro opere, sento proprio quello. La stessa inquietudine di quando mi trovo solo per strada. L’identica attrazione e pena - per me, per tutti - di quando guardo la pubblicità, la tivù, e tutta l’intelligenza necessaria per rendere dorata e luminosa la tivù e la pubblicità. Ma tutto questo, Jean Michel Basquiat, forse, non l’ha mai pensato. L’ha solo reso evidente. E i suoi quadri sono lì per noi.

lunedì 11 dicembre 2006

The Bad Plus

Il jazz è un genere musicale che gioca e sperimenta soprattutto con il suo passato. Tutti i grandi musicisti jazz hanno speso parte della loro vita – e del loro genio – a confrontarsi con standard, classici, evergreen. Inutile chiedersi quante volte sia stata eseguita My funny valentine, ‘Round midnight, My favorite thing. Il jazz che rilegge il jazz è una costante che attraversa tutta la storia di questo tipo di musica. Poi sulla scena appaiono i The bad plus, e certezze di questo tipo cominciano a vacillare. Perchè la loro musica non ha la patina gloriosa del tempo che fu, non pronuncia melodie sepolte nella nostra memoria, ma affonda le sue radici direttamente nel presente. La loro opera prima, l’ormai celebre “These are the vistas” (Columbia, 2003), è un emblema perfetto del tipo di lavoro che la band porta avanti. Su un totale di dieci canzoni, tre sono cover: Smells like teen spirit dei Nirvana, Flim di Aphex Twin, Heart of glass dei Blondie. E come se non bastasse, tutte le altre tracce presenti nel disco non suonano come se fossero semplicemente jazz, ma in più manifestano la potenza del rock, la semplicità melodica del pop, la velocità scatenata della drum’n’bass, e la cura della notazione musicale della musica classica. Una musica incredibile, davvero. Soprattutto: una musica coinvolgente, del tutto lontana da quella roba noiosa e complicata che si ascolta in giacca e cravatta tra uno sbadiglio e l’altro. E la cosa che più stupisce non è tanto il frullare impazzito di note che viene a prenderti dovunque sei, ma che quella musica esca fuori da una tipica formazione jazz. Il piano-trio: pianoforte, contrabbasso, batteria. Infilate “Sospicious Activity?” nel lettore e lasciate le tracce compiere il loro corso. Troverete solo Chariot of fire a riportarvi alla memoria musica già ascoltata, qui resa più evocativa e potente. Il resto è puro stile The bad plus. Il pianoforte di Ethan Iverson che sa essere rapido ed esatto (Anthem for the Earnest), o intenso e noise (Prehensile dream). La batteria di David King che scolpisce il ritmo con cadenze perfette e intanto ricama tocchi e colpi che accelerano l’esecuzione (Rhinoceros is my profession). Il contrabbasso di Reid Anderson a dare profondità ed esattezza al suono che si fa più rotondo e compatto (Let our garden grow). Ma non è semplice dividere ruoli e assegnare meriti. Non è il “solito” jazz alla Keith Jarrett – con tutto il rispetto per il Maestro! - dove ogni tanto un musicista inizia ad improvvisare a turno, nel silenzio degli altri che assistono e rilanciano e seguono il ritmo. Sono lunghi assoli collettivi, le composizioni dei The bad plus. Musicisti che si tengono per mano, tenacemente, anche quando uno solo di loro corre e accelera il tempo.


giovedì 7 dicembre 2006

Il marketing e la morte

Tra le infinite notizie che ti piovono addosso quando apri un giornale, o guardi il tg, ce n’è sempre una vagamente straziante. Hai appena girato pagina, o sei lì a scalare palinsesti con il telecomando in mano, e in pochi secondi il tuo sistema emotivo va su di giri, gli organi interni seguono a ruota, e i tuoi muscoli facciali non possono far altro che coordinarsi e accavallarsi fino a metterti quell’aria stupefatta in viso. Le tue labbra sono fisse su un «NO!» incredulo e indifeso. Le palpebre sbattono ripetutamente proprio come quando non hai capito, o hai capito tutto e troppo in fretta. Di solito, la notizia riporta le cause e la data di un decesso. La morte di un regista famoso, o di un noto scrittore, viene annunciata con particolare rilievo – gridata in tv, titolata in un grassetto più funereo del solito sui quotidiani – e le immagini del regista, o dello scrittore, sono estrapolate dal lungo continuum spazio-temporale della sua vita, ed è un salmodiare preciso di film riusciti o successi editoriali. Non ci credi ancora, quando la notizia è finita e deve lasciare spazio alla successiva. Proprio perchè news e successiva – in inglese, notizia e novità si scrivono nello stesso modo – la notizia seguente è stata programmata con cura per toglierti il lucido dagli occhi e riportarti in alto gli angoli della bocca. Ma se è un nome significativo per te, quello del regista o dello scrittore, le strategie emotive dei media non fanno altro che sovraccaricare quel senso di perdita e di fine. In ordine di sparizione, l’ultimo dei registi a lasciarci è stato Robert Altman. Mancherà al Cinema. Soprattutto perchè aveva capito, in tempi di globalizzazione ed intrecci interplanetari, riprendendo la lezione di Charles Dickens, che è impossibile raccontare una storia senza raccontarne altre cento, con i personaggi che si incontrano, si legano, si lasciano, cospirano, tramano, semplicemente si ignorano - personaggi le cui azioni così banali, o non volute, o perfino evitabili, finiscono sempre per influire su destini e storie personali di perfetti sconosciuti. Il cinema, di solito, tratta le storie, i suoi personaggi, come se al posto della macchina da presa avesse un potentissimo microscopio: isola, seleziona, sulla singolarità di un solo protagonista costruisce exempla e metafore, ma sancisce la perdita di un campo più vasto e pluri-laterale: e lo scacchiere non regge mai il gioco di una sola pedina. Ma la cosa che più ti turba è che di tutto quello, scrittore o regista che sia, te ne dimenticherai presto: almeno fino al momento in cui, il giorno dopo, sfogliando il giornale, o collaudando abilità olimpioniche di zapping, ti imbatterai, per un caso che non è affatto un caso, nella pubblicità di un libro o di un film, di quello scrittore o di quel regista, che ci ha appena lasciato le penne causandoti il brusco colare a picco degli angoli della bocca. Su quel libro, su quel film, si è depositato qualcosa della sacralità della morte, qualcosa della sacralità della vita di quel personaggio per te così importante. E avverti il bisogno immediato, e del tutto irrefrenabile, di comprarlo, adesso: non prima, non dopo, adesso! Chi vende sa il fatto suo: sa che immettendo subito sul mercato quel libro, quel film, sta facendo in modo di dare soddisfazione a un bisogno del consumatore che si trova da qualche parte in alto sulla Piramide di Maslow – cima della piramide che identifica più che altro il bisogno di realizzazione di sé. Nell’astuzia del mercato, la conoscenza dei suoi polli. Perchè, di sicuro, ci deve essere qualcosa di nascosto in tutto questo, di rituale e antropologico. Come se comprando uno di quei prodotti culturali, finissi per portare a casa un pezzo di cadavere, una parte del morto, qualcosa che nonostante scomparsa ed eterno riposo per il defunto ti permetterà subito, o in un tempo non lontano, di richiamarlo a te, di riportalo in vita per vie oblique e di mercato. Capita che poi, quel libro, quel film – quel pezzo di cadavere prodotto in serie & standardizzato & rilegato – diventerà parte fondamentale della tua crescita, del tuo sviluppo cognitivo, della tua educazione sentimentale. Assimilerai il morto, farà parte di te, profondamente. E non senza sentire il disagio, del tutto postmoderno, di esserti trovato per un attimo, nel momento di massima comunione con lo scrittore o con il regista, in cima alla Piramide di Maslow, senza neanche sapere nulla di questo Maslow – che faccia avesse, se fosse la moglie a farlo rigare dritto, se lo schema tanto venerato e decisivo per le teorie del marketing gli apparse tra gli scarabocchi di inchiostro, mentre parlava al telefono e giocava con la penna.

lunedì 4 dicembre 2006

La lezione di Peter Brook (parte II)

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. Ma i sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare sui non-francofoni. Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena ad incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, e il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di far fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles. Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, e quel nero non ha nulla di incidentale e casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema Di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo cosa significa vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia - e tu sei lì a ridere, e il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive ed unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e - anche se ridi con Styles e non di Styles - hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina. Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford e, con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio di fotografo. E i clienti passano da lì, e Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni in quelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da ascoltare. Il dramma sta tutto nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perchè se lo catturano lo riportano in Sudafrica, la sua terra, e si troverà per strada ad elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia. Sizwe Banzi è grande, grosso, e la disperazione lo incupisce, e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, e si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra – (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo) – e Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti & dilemmi interiori & dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi diventa Robert, un uomo di colore con i documenti. La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne ed ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente a dare l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, e i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante. È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione. Sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia: ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, e lo vede come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere freddo e in mezzo alla strada. Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.