martedì 19 dicembre 2006

Tutto quello che Jean Michel Basquiat non avrebbe mai osato pensare, forse

È strano. Ma entro timoroso, alla Triennale di Milano, dove è attaccato sui muri tutto ciò che rimane di Jean Michel Basquiat. Lì c’è il suo sguardo, la sua mano, il suo tempo, una quantità di tempo non calcolabile, speso a sfregiare superfici e mischiare colori e incidere il suo nome, in lettere capitali, sulle pareti della Storia. Nei suoi quadri, quello che noti è: teste, ossa, corone, scale, macchine e il semaforo impazzito di colori, che ti blocca lì, un po’, e ti lascia passare oltre, non senza uno stormo di pensieri in testa, non senza la ruggine e lo sfascio del mondo tra i pensieri. In mezzo ai quadri, ci sono le foto, ma anche i video, piccoli spezzoni di vita impressa su qualche pellicola, e lì Basquiat a camminare, e mettere sotto spray interi quartieri, con frasi lunghe, veloci, affilate e paradossali. Non è che le scrivesse dappertutto, le frasi. C’erano dei posti che gli facevano più gola. Le pareti intatte delle gallerie d’arte, per dirne una. Sapeva che prima o poi sarebbe finito lì, in quel nido protetto, in quel covo di affaristi. E intanto, anche se nessuno conosceva il suo nome, lasciava il suo segno, la sua ipoteca sul futuro. E le foto, i filmati, con tutto quel movimento, s’ingegnano parecchio a riportarlo in vita. Ma se vuoi sentire ancora J. M. Basquiat, devi tornare ai quadri e bruciare la tua visita lì davanti, anche se la schiena e le gambe concedono poco. Così ci torno, ci cammino in mezzo, tra i quadri vedo richiami, e connessioni, e la purezza lampeggiante e senza tempo del blu, del giallo, del rosso, del nero. Ma non sono l’unico presente, nelle sale. Altre persone ronzano lì dentro, sistemano gli occhiali, si fanno avanti per guardare meglio, e poi tirano indietro tutto loro stessi, non solo per vedere il particolare in un ampio insieme, ma per sfuggire alla contaminazione, non lasciarsi toccare dalla ruggine e dallo sfascio del mondo. È una sensazione che si addiziona al timore di entrare dove è attaccato ai muri, Basquiat. E la sensazione si fa più forte, e solida, mentre osservo lettere dipinte praticamente su ogni quadro: ogni quadro una parola, o lettere tremolanti, o vocali decise, o nomi e titoli di dischi. La cosa davvero esplosiva è che ti sembra di stare per strada, quando è un museo che ti racchiude, con le sue forme e la sua eleganza e l’immacolato candore delle superfici. E non solo in strada, sfiorando palazzi enormi graffiati di spray: ma anche nel cesso di un qualsiasi posto, dove qualcuno, nonostante l’odore, ha preso un pennarello e ha cominciato a segnare le pareti, la porta, in un modo osceno, senza alcuna accademia alle spalle. Jean Michel Basquiat, sicuro, conosceva tutto quello. E per molto tempo, lui stesso, prima di finire nelle gallerie, tra i party trendy e le tartine in bocca agli speculatori di Wall Street, aveva lasciato la sua impronta su treni, metropolitane, palazzi, dovunque l’arte potesse ritornare graffio primitivo ed energia preistorica, con zero incassi finali: solo la gloria minuta di vedere il tuo nome, le tue figure, incise da qualche parte, sul grigiore del mondo. Quella cosa, deve essergli rimasta in testa, fino alla fine. Ed io la avverto in pieno, mentre Basquiat è attaccato al muro. Così come l’ho sentita, tempo prima, ad una mostra di Andy Warhol, anche se Warhol lavorava non sull’immaginario osceno e degradato delle strade, ma su quello luminoso e abbagliante della pubblicità, della tivù, dei prodotti per le masse. Hanno riversato le strade e le luci del mondo, la periferia e il centro del mondo, nei musei, quei due. E hanno finito per abbattere, una volta per tutte, l’idea che i musei siano una Riserva Indiana, un posto dove salvaguardare genio e sgregolatezza ad Uso & Consumo del mercato dell’arte. Come piccole candide bomboniere, le istituzioni museali, scintillanti in mezzo al fango della vita quotidiana. Solo che Basquiat e Warhol, con le loro opere, hanno spedito quel fango dentro le bomboniere, e macerie che ci appaiono bellissime, e rovine che riteniamo commoventi. Hanno dato una forma chiara - esteticamente apprezzabile, sicuramente riconoscibile - alla cenere e ai lustrini del mondo: ed è stata questa la loro abilità. Ed io, in mezzo alle loro opere, sento proprio quello. La stessa inquietudine di quando mi trovo solo per strada. L’identica attrazione e pena - per me, per tutti - di quando guardo la pubblicità, la tivù, e tutta l’intelligenza necessaria per rendere dorata e luminosa la tivù e la pubblicità. Ma tutto questo, Jean Michel Basquiat, forse, non l’ha mai pensato. L’ha solo reso evidente. E i suoi quadri sono lì per noi.

lunedì 11 dicembre 2006

The Bad Plus

Il jazz è un genere musicale che gioca e sperimenta soprattutto con il suo passato. Tutti i grandi musicisti jazz hanno speso parte della loro vita – e del loro genio – a confrontarsi con standard, classici, evergreen. Inutile chiedersi quante volte sia stata eseguita My funny valentine, ‘Round midnight, My favorite thing. Il jazz che rilegge il jazz è una costante che attraversa tutta la storia di questo tipo di musica. Poi sulla scena appaiono i The bad plus, e certezze di questo tipo cominciano a vacillare. Perchè la loro musica non ha la patina gloriosa del tempo che fu, non pronuncia melodie sepolte nella nostra memoria, ma affonda le sue radici direttamente nel presente. La loro opera prima, l’ormai celebre “These are the vistas” (Columbia, 2003), è un emblema perfetto del tipo di lavoro che la band porta avanti. Su un totale di dieci canzoni, tre sono cover: Smells like teen spirit dei Nirvana, Flim di Aphex Twin, Heart of glass dei Blondie. E come se non bastasse, tutte le altre tracce presenti nel disco non suonano come se fossero semplicemente jazz, ma in più manifestano la potenza del rock, la semplicità melodica del pop, la velocità scatenata della drum’n’bass, e la cura della notazione musicale della musica classica. Una musica incredibile, davvero. Soprattutto: una musica coinvolgente, del tutto lontana da quella roba noiosa e complicata che si ascolta in giacca e cravatta tra uno sbadiglio e l’altro. E la cosa che più stupisce non è tanto il frullare impazzito di note che viene a prenderti dovunque sei, ma che quella musica esca fuori da una tipica formazione jazz. Il piano-trio: pianoforte, contrabbasso, batteria. Infilate “Sospicious Activity?” nel lettore e lasciate le tracce compiere il loro corso. Troverete solo Chariot of fire a riportarvi alla memoria musica già ascoltata, qui resa più evocativa e potente. Il resto è puro stile The bad plus. Il pianoforte di Ethan Iverson che sa essere rapido ed esatto (Anthem for the Earnest), o intenso e noise (Prehensile dream). La batteria di David King che scolpisce il ritmo con cadenze perfette e intanto ricama tocchi e colpi che accelerano l’esecuzione (Rhinoceros is my profession). Il contrabbasso di Reid Anderson a dare profondità ed esattezza al suono che si fa più rotondo e compatto (Let our garden grow). Ma non è semplice dividere ruoli e assegnare meriti. Non è il “solito” jazz alla Keith Jarrett – con tutto il rispetto per il Maestro! - dove ogni tanto un musicista inizia ad improvvisare a turno, nel silenzio degli altri che assistono e rilanciano e seguono il ritmo. Sono lunghi assoli collettivi, le composizioni dei The bad plus. Musicisti che si tengono per mano, tenacemente, anche quando uno solo di loro corre e accelera il tempo.


giovedì 7 dicembre 2006

Il marketing e la morte

Tra le infinite notizie che ti piovono addosso quando apri un giornale, o guardi il tg, ce n’è sempre una vagamente straziante. Hai appena girato pagina, o sei lì a scalare palinsesti con il telecomando in mano, e in pochi secondi il tuo sistema emotivo va su di giri, gli organi interni seguono a ruota, e i tuoi muscoli facciali non possono far altro che coordinarsi e accavallarsi fino a metterti quell’aria stupefatta in viso. Le tue labbra sono fisse su un «NO!» incredulo e indifeso. Le palpebre sbattono ripetutamente proprio come quando non hai capito, o hai capito tutto e troppo in fretta. Di solito, la notizia riporta le cause e la data di un decesso. La morte di un regista famoso, o di un noto scrittore, viene annunciata con particolare rilievo – gridata in tv, titolata in un grassetto più funereo del solito sui quotidiani – e le immagini del regista, o dello scrittore, sono estrapolate dal lungo continuum spazio-temporale della sua vita, ed è un salmodiare preciso di film riusciti o successi editoriali. Non ci credi ancora, quando la notizia è finita e deve lasciare spazio alla successiva. Proprio perchè news e successiva – in inglese, notizia e novità si scrivono nello stesso modo – la notizia seguente è stata programmata con cura per toglierti il lucido dagli occhi e riportarti in alto gli angoli della bocca. Ma se è un nome significativo per te, quello del regista o dello scrittore, le strategie emotive dei media non fanno altro che sovraccaricare quel senso di perdita e di fine. In ordine di sparizione, l’ultimo dei registi a lasciarci è stato Robert Altman. Mancherà al Cinema. Soprattutto perchè aveva capito, in tempi di globalizzazione ed intrecci interplanetari, riprendendo la lezione di Charles Dickens, che è impossibile raccontare una storia senza raccontarne altre cento, con i personaggi che si incontrano, si legano, si lasciano, cospirano, tramano, semplicemente si ignorano - personaggi le cui azioni così banali, o non volute, o perfino evitabili, finiscono sempre per influire su destini e storie personali di perfetti sconosciuti. Il cinema, di solito, tratta le storie, i suoi personaggi, come se al posto della macchina da presa avesse un potentissimo microscopio: isola, seleziona, sulla singolarità di un solo protagonista costruisce exempla e metafore, ma sancisce la perdita di un campo più vasto e pluri-laterale: e lo scacchiere non regge mai il gioco di una sola pedina. Ma la cosa che più ti turba è che di tutto quello, scrittore o regista che sia, te ne dimenticherai presto: almeno fino al momento in cui, il giorno dopo, sfogliando il giornale, o collaudando abilità olimpioniche di zapping, ti imbatterai, per un caso che non è affatto un caso, nella pubblicità di un libro o di un film, di quello scrittore o di quel regista, che ci ha appena lasciato le penne causandoti il brusco colare a picco degli angoli della bocca. Su quel libro, su quel film, si è depositato qualcosa della sacralità della morte, qualcosa della sacralità della vita di quel personaggio per te così importante. E avverti il bisogno immediato, e del tutto irrefrenabile, di comprarlo, adesso: non prima, non dopo, adesso! Chi vende sa il fatto suo: sa che immettendo subito sul mercato quel libro, quel film, sta facendo in modo di dare soddisfazione a un bisogno del consumatore che si trova da qualche parte in alto sulla Piramide di Maslow – cima della piramide che identifica più che altro il bisogno di realizzazione di sé. Nell’astuzia del mercato, la conoscenza dei suoi polli. Perchè, di sicuro, ci deve essere qualcosa di nascosto in tutto questo, di rituale e antropologico. Come se comprando uno di quei prodotti culturali, finissi per portare a casa un pezzo di cadavere, una parte del morto, qualcosa che nonostante scomparsa ed eterno riposo per il defunto ti permetterà subito, o in un tempo non lontano, di richiamarlo a te, di riportalo in vita per vie oblique e di mercato. Capita che poi, quel libro, quel film – quel pezzo di cadavere prodotto in serie & standardizzato & rilegato – diventerà parte fondamentale della tua crescita, del tuo sviluppo cognitivo, della tua educazione sentimentale. Assimilerai il morto, farà parte di te, profondamente. E non senza sentire il disagio, del tutto postmoderno, di esserti trovato per un attimo, nel momento di massima comunione con lo scrittore o con il regista, in cima alla Piramide di Maslow, senza neanche sapere nulla di questo Maslow – che faccia avesse, se fosse la moglie a farlo rigare dritto, se lo schema tanto venerato e decisivo per le teorie del marketing gli apparse tra gli scarabocchi di inchiostro, mentre parlava al telefono e giocava con la penna.

lunedì 4 dicembre 2006

La lezione di Peter Brook (parte II)

Ok! La teoria è andata. Non resta che misurarsi con la pratica. Così, la settimana dopo la lezione, sono di nuovo al Piccolo Teatro Studio per uno spettacolo diretto da Peter Brook. La pièce che vedo si chiama Sizwe Banzi est mort. È in francese. Ma i sottotitoli che si illuminano di bianco sul nero del display sono lì a proteggere e vegliare sui non-francofoni. Sono seduto a terra, su un cuscino. In mezzo agli altri, riesco appena ad incrociare le gambe. Molti sembrano fare yoga, e si contorcono parecchio, anche se ignoro del tutto i nomi delle posizioni che assumono. I beati stanno sulle gradinate, e il loro sguardo è fisso nel nulla. Sto per spegnere il cellulare quando, cordiale e pre-registrata, una voce femminile ci intima in un italiano elegante di far fuori cellulari e tecnologie varie. La pièce, così, ha inizio. Le luci si abbassano, e la storia è quella di Styles. Styles è un uomo nero – il colore della pelle dei protagonisti è fondamentale in questa storia, e quel nero non ha nulla di incidentale e casuale nello svolgimento dei fatti, ma è il segno puro della differenza, e il Sistema Di Discriminazione che si ritorce contro Styles ha la fobia dell’umanità nascosta sotto quel colore, e Styles lo impara a sue spese. Styles è un uomo nero che lavora in una fabbrica della Ford, e passa tutto il santo giorno alla Ford, e lì alla Ford capisce fino in fondo cosa significa vessazione, anche se non ha il vocabolario e l’istruzione è quel poco che è. Ovviamente, vessazione, per noi spettatori, è quasi un eufemismo. Ma Styles, che racconta in prima persona, dipana questa storia con leggerezza e ironia - e tu sei lì a ridere, e il pubblico si guarda mentre sganascia risate una dopo l’altra, e c’è di che darsi pacche sulle gambe e premiare con risate esplosive ed unisone il racconto di quel povero cristo che si fa un culo così alla Ford, mentre dopo la risata è il rinculo del senso di colpa quello che avverti e - anche se ridi con Styles e non di Styles - hai l’amaro in bocca, e non c’è verso di evitare quella medicina. Dopotutto, Styles, è uno che sa il fatto suo: alla prima occasione lascia la Ford e, con i risparmi di anni alla Ford, compra un negozio di fotografo. E i clienti passano da lì, e Styles vorrebbe incorniciare i loro sogni in quelle fotografie, solo quello, quando un giorno è Robert a varcare la porta del suo negozio. Robert è il secondo protagonista della pièce. La storia di Robert è perfino più drammatica ed emotivamente sgradevole da ascoltare. Il dramma sta tutto nel fatto che Robert non è Robert, ma Sizwe Banzi: un uomo di colore, senza documenti, che lavora dove può, si nasconde sempre, perchè se lo catturano lo riportano in Sudafrica, la sua terra, e si troverà per strada ad elemosinare centesimi con tutta la sua numerosa famiglia. Sizwe Banzi è grande, grosso, e la disperazione lo incupisce, e una notte va a farsi passare la disperazione in un bar, e si ubriaca, e quando esce barcollando l’esigenza insopprimibile lo fa pisciare, e ubriaco, senza accorgersi, piscia su qualcosa che poi si rivelerà un cadavere, un altro uomo di colore steso a terra – (taglio trama e un personaggio sennò sarebbe lungo) – e Banzi lo vede, fruga le sue tasche, trova documenti intestati a questo Robert, e seppure tra mille tormenti & dilemmi interiori & dubbi amletici prende quei documenti, li fa suoi, e l’identità più il nome di Sizwe Banzi spariscono definitivamente quando Sizwe Banzi diventa Robert, un uomo di colore con i documenti. La tragedia, anche qui, affiora tra le risate, e il rinculo da senso di colpa delle risate è la cosa peggiore in assoluto. Però, lo sforzo da fare è: immaginare come Peter Brook abbia messo in scena questa storia. Styles, Robert, i due attori che prestano carne ed ossa ai personaggi, sono immersi in uno spazio completamente spoglio. Nel vuoto del teatro, niente a dare l’impressione di una scenografia tradizionale. Solo dei cartoni, due sacchi, un bastone, sgabelli ricavati da cassette, cornici di ferro con due rotelle per farle muovere, una scarpa. Tutto qui. Ma l’assenza, la sparizione del mondo, dura appena pochi secondi. Perchè gli attori con le parole, e i gesti precisi quanto affilati, e la maestria con cui dispongono del proprio corpo, rimpolpano velocemente la scena, le danno spessore, la rendono viva e vibrante. È vuoto intorno, ma è un vuoto particolarmente pieno e caoticamente reale. E noi spettatori, nel deserto della sala, con solo due attori davanti e una scenografia sparita, lavoriamo al pari degli attori, con tutto il nostro corpo. L’immaginazione è su di giri: e ripercorrendo i gesti, le parole, il tono di quelle parole, l’esattezza dei movimenti, ricostruiamo – senza averle mai viste – la fabbrica, la città, le strade e, lì in mezzo, (siamo qui proprio per questo), incontriamo Styles e Robert, e non li molliamo più finché gli applausi non spengono l’immedesimazione. Sicuro, c’è qualcosa di capitale in questo modo di fare teatro. La prova, è la forza con cui tutto rimane vivido e ben disposto nella memoria. Provo a capire. E, dal deserto del teatro, emergono due figure. Da una parte, Peter Brook: che prova a raccontarti una storia senza dirti tutto di quella storia: ti dà il tempo, la cadenza degli avvenimenti, ma intanto sottrae lo spazio e la concretezza degli avvenimenti. E dall’altra, lo spettatore: che sulla traccia di quel tempo, mettendo in moto una quantità inverosimile di neuroni, ricostruisce lo spazio di quella storia, e lo vede, e lo vede come se ci vivesse in mezzo, provando direttamente l’orrore di quella storia, tutta la disperazione – il momento culminante della pièce è quando Banzi inciampa nel cadavere, ma quello che i due attori chiamano cadavere in realtà è una scarpa, una scarpa marrone e slacciata, e lo spettatore è in disperato tumulto neuronale mentre ricostruisce da quella scarpa fattezze e orrore di un cadavere freddo e in mezzo alla strada. Allora osservo in questo modo di fare teatro una doppia responsabilità: la responsabilità di chi decide di raccontare e orchestrare con rigore quella storia (Peter Brook), e la responsabilità di chi deve perfettamente ricostruire lo spazio della storia per avvertirne in pieno il dolore e lo sgomento (gli spettatori). C’è ben poco di passivo in questa forma teatrale: scoprire insieme la realtà, i suoi orrori, è un dovere collettivo, e ciò avviene puntualmente ad ogni replica.

giovedì 30 novembre 2006

La lezione di Peter Brook (parte I)

Di Peter Brook, fino a un paio di settimane fa, non ne sapevo molto. Conoscevo il nome, che era un regista teatrale di fama mondiale, che l’ammirazione e gli applausi non finivano mai di fioccare dalle sue parti – insomma, è chiaro che se non vai a vedere con i tuoi occhi, quello che ti arriva è puro marketing e personaggi costruiti ad arte e l’incenso dei comunicati stampa. Così, sono andato a sentire una sua lezione al Piccolo Teatro Studio di Milano. Arrivo che è già pieno. I posti migliori sono tutti occupati. Gli estimatori tubano, e sussurrano, e ondeggiano, e si dispongono senza creare disordine. Il caldo in sala ha sicuramente una strana connessione con la loro temperatura emotiva. Non puoi evitare di leggere la parola Maestro sulle loro labbra. Poi, arriva Peter Brook. Se non l’hai mai visto, ti sorprendi ad osservare questo vecchiettino che cammina in mezzo agli applausi, very british nella fisionomia e nel portamento, ma a ottantanni suonati con jeans, sneakers ai piedi e il giubbotto di pelle nera. Sembra Fonzie, da grande: quando ha perso capelli ciuffo brillantina, e la vita gli ha già dato tutto, ed è un portatore sano di Esperienza. Si siede su una sedia da regista. E sta esattamente al centro della nostra attenzione. Alla sua sinistra: un tizio con il maglioncino dolcevita da intellettuale anni sessanta più scarpe di vernice nera che brillano mentre fa domande lunghissime a Brook, alcune davvero imbarazzanti, tipo quella sull’apporto dato dagli attori neri al suo teatro. Alla sua destra: la traduttrice, capelli lunghi e stivali, che ogni tanto, invece di tradurre quello che sente, sorride e annuisce – come se Peter Brook si rivolgesse direttamente a lei, ignorando la platea – e mentre annuisce e sorride, interpreta, ma delle volte interpreta male e si scusa, torna sui suoi passi, e riporta le parole per quello che sono, con il loro significato preciso e nulla più. Comunque, niente di meglio che avere una traduttrice dalla nostra. Peter Brook, divertito e completamente a suo agio in mezzo ad estimatori ipnotizzati, avverte che la sua lezione subirà la seguente variazione linguistica: l’italiano per i saluti e l’introduzione, l’inglese per gli argomenti terra terra, il francese per le discussioni intellettuali. Il pubblico ride. Gli stereotipi linguistico-culturali sono sani e salvi perfino qui, ma il modo in cui sono presentati è chiaramente ironico, ed è una cosa del tutto fatata godere degli stereotipi mentre li evidenzi e li smagnetizzi con l’ironia iniziale. Non faccio in tempo ad uscire da questo pensiero, che Peter Brook, il suo inglese lento e pacifico, riempiono lo spazio vuoto del teatro. L’attenzione è alle stelle. E neanche le domande lunghissime e simil-intellettuali del tizio sembrano rompere l’attenzione. Solo Peter Brook a raccontare le sue avventure: tipo quella africana, dove ogni giorno, lui e la sua troupe, entrano in un villaggio diverso, e senza conoscere la lingua, senza afferrare la cultura, con forme teatrali che giocano principalmente sulla gestualità e sul corpo, lì a tentare di comunicare e condividere esperienza & umanità & altri modi di codificare la vita. E l’idea di Peter Brook è che per arrivare al cuore delle cose, devi creare il vuoto intorno alle cose, scoprirle nude - come il teatro, che non ha bisogno di scenografie grandiose, e abiti di scena strafichi, e macchine spettacolari, ma solo di spazio vuoto e di attori che vivono quello spazio fino in fondo, con tutto il loro corpo – l’energia del corpo, l’esattezza mimetica del corpo. Ovviamente, è in francese che dice queste cose. Le dice prima di spedirmi in testa una frase che non dimenticherò più: “Il teatro è lo specchio della società, e lo specchio non ha bisogno di cornici dorate”. Incasso il colpo. E rimango a pensare a questo mentre qualcuno chiede qualcosa sul teatro cinese e su come diventare registi - domanda che non ha risposta se non: più ci date dentro con la regia, più imparate: le mode, i maestri, roba con la data di scadenza. Il pubblico in trance. Silenzio e concentrazione che dura fino a quando Peter Brook non si alza, e corre a dirigere le prove prima dello spettacolo, e gli estimatori con la parola Maestro tra i denti e le mani rosse di applausi riaccendono i telefonini.

lunedì 27 novembre 2006

Diario del bordo: l’Università come Esperienza del Limite

Ora che è tutto finito, ora che il Recinto dove giovani menti pascolano e ruminano teoria non mi contiene più, ora che non mi ci vedo più a belare dentro il recinto e a covare per giorni le idee degli altri, solo ora mi rendo conto di cosa è stata l’Università, e di quanto ho pascolato e ruminato e belato e covato. Appena metti un piede fuori, e il mondo si dispiega incominciando proprio da sotto il tuo piede, e non è solo Orizzonte quello che hai davanti, ma praterie solcate da nuovi Confini - altre forme per chiudersi e protendersi e proteggersi e definirsi - ricordi che non era affatto uno spazio come gli altri, quel recinto. Che ci avevi vissuto bene, lì dentro. E che brucare Conoscenza in compagnia non era poi male: uno strano modo di coltivare l’Amicizia, e affinare il senso della condivisione. Ma capire il recinto, non ti era dato mentre ci stavi in mezzo. Lo vivevi, lo percorrevi nella sua circonferenza, esploravi il centro e la periferia del recinto, pensando che un giorno ne avresti avuto una Visione D’Insieme. E la visione d’insieme ti raggiunge adesso, quando il ricordo è già pulito, tutto in ordine, senza una macchia, ricordo che ti appartiene fino in fondo perchè definisce l’Età in cui brucavi e ruminavi e tutto questo ti bastava. Così, prima di ogni altra cosa, grazie alla visione d’insieme - un’immagine ripresa dall’alto, quasi una ricognizione aerea - capisci che nel particolare recinto dell’università quello che vivevi era l’esperienza del limite. Soprattutto: il tuo limite. Mettiamo che sei in un’aula universitaria, e che intorno a te il paesaggio umano si dispone caoticamente lungo l’arco del semiciclo, e che l’aria degli studenti vira secondo i casi tra l’assonnato e il principio d’inerzia, e che qualcuno dei ragazzi se ne sta ferocemente in silenzio e in disparte mentre altri con modi new age raccontano di quanto è easy e sfrenata e maledettamente coinvolgente la loro vita sessuale, e che di punto in bianco appare un professore con la barba a prima vista non curata e il giusto tono di colore della cravatta, professore che si toglie la giacca, si arrotola le maniche, prende il microfono, dice Buongiorno, e poi senza darti il tempo ti sorprende alle spalle con il Modello Semiotico-Enunciazionale e tutta la storia del Testo e dei Simulacri Testuali. Mettiamo per un attimo che sia andata così. Quella, come mille altre occasioni, è stata un’esperienza del limite: cioè hai messo alla prova, e hai subito confermato, la finitudine e la ridotta dimensione del tuo Sapere. In pochi secondi, hai capito di essere letteralmente limitato, con in testa un sapere piccolo così, che non faceva impressione a nessuno. E per evitare di sentirti scientificamente Nessuno – una meteora solitaria ed invisibile ad orbitare ellitticamente intorno a Pianeti smisurati – cominci a concentrarti e prendere appunti e recuperare il tempo perduto. Lasci la tua penna scorrere mentre la tua giovane mente assorbe e comincia a covare. E tutto il tempo speso a covare e ruminare è fondamentale – di solito nel recinto si pascola per qualcosa come cinque o sei anni, una vita intera, un tempo davvero infinito. E quello che all’inizio si presentava come un limite appare più in là come una soglia: una porta aperta su un nuovo Campo Di Sapere. Un nuovo campo di sapere in cui entri timoroso, con le prime timide incursioni, e poi ci scorazzi in lungo e in largo, sfidando Punti Di Vista & Autorità In Materia. Questo meccanismo è il cardine dell’Università: applicazione e metodo fanno dei Limiti tante Soglie da attraversare. Ovviamente, non tutti i limiti, a lungo andare, si dimostrano soglie. Io, l’Economia, non l’ho mai potuta capire davvero. In quel campo di sapere, ci sono andato sempre con qualcuno che mi accompagnava, e la visita non durava che il tempo di un esame. È un territorio tutto particolare, l’economia. Un posto fantasmatico e vagamente schizoide nei confronti della vita quotidiana. L’astrazione elevata a potenza. (Sono convinto che molti provano questo nei confronti della Semiotica, o di qualsiasi altra scienza, e questo la dice lunga sulla persistenza dei limiti). Ma l’esperienza dei limiti non finisce mica qui. Mettiamo che molto tempo fa un tuo limite è diventato una soglia, e che quella soglia l’hai attraversata così tante volte che all’ingresso c’è il tappetino del casa-dolce-casa ad accoglierti, e che in quel campo di sapere ti sei spinto così lontano da arrivare a vederne i bordi e i confini. Questa volta è l’esperienza di un Limite sia interno sia esterno a te stesso. Il tuo limite su quel sapere coincide con un limite più generale - orlo del sapere su cui molti si sono avventurati. Di solito, stai sul quel bordo quando scrivi la Tesi. E le tesi, nei casi migliori, assomigliano ai diari del bordo, scritti da coloro che si sono spinti oltre e vedono schiudersi nuove terre e continenti lontani. L’esperienza del Limite Che Si Muove mentre tu stesso ti muovi. Mica kilometri. Solo pochi passi. Ma è lì che capisci che il recinto che ti ha ospitato intere stagioni ha fatto il suo tempo. È il richiamo di nuovi, e più avventurosi, e meno battuti territori. È quel Miraggio a chiamarti fuori.

venerdì 24 novembre 2006

La compagnia delle compagnie!

PRIMO PENSIERO SGRADEVOLE RIGUARDO AL VIAGGIO DI LISBOA 2006 LA CUI ABILITÁ (DEL PENSIERO) STA NEL NON FARSI DIMENTICARE, E ARCHIVIARE, TRA GLI ALTRI PENSIERI SGRADEVOLI E PRIVI DI PATHOS:

e indovina, indovina un po’: chi viene a cercarti un secondo dopo che sei smontato dal cielo, e l’aereo è filato liscio sulla pista, e i passeggeri battono le mani a svariati decibel per ringraziare il comandante pilota Lufthansa di aver depositato a terra il prezioso carico umano affidatogli parecchi kilometri & kilometri prima? La tua compagnia telefonica! Mica un essere umano dalle sembianze perfettamente riconoscibili a cui tu, tempo fa, hai concesso affetto, o emozioni autentiche, o anche e semplicemente una parola buona al momento giusto. Niente di tutto questo. Solo, la tua compagnia telefonica. Che si ricorda di te, un secondo dopo che sei sbarcato in un paese straniero, per salutarti, e stringerti cordialmente la mano, e avvisarti - con una lagna che sa di merketing & burocrazia & ho-tanta-voglia-di-infilarmi-nel-tuo-credito-residuo – che puoi fare tutte le telefonate che vuoi, e addebitarle prontamente sul conto del tuo destinatario, con un tono proveniente dalle più recenti avventure della new economy e del post-capitalismo avanzato – che in quanto avanzato, è molto più accattivante e suadente. E tu sfatto, su una poltrona dell’aeroporto che svela le proprietà ortopediche del granito, e il telefono che ti trilla in tasca, due volte, e un paio di messaggi, suadenti e accattivanti, che ti stringono la mano e ti danno molte pacche sulle spalle, del tipo «ci pensiamo noi a te, amico», a pensare che ti seguirà ovunque e per tutta la vita, la tua compagnia telefonica. Che ti saluterà sempre, e in anticipo, rispetto a qualsiasi altro essere senziente e affettivamente ben identificato. Che l’entità post-post-umana e tentacolare e interplanetaria della tua compagnia telefonica allungherà, su per i crinali del tuo pensiero, le ombre degli svantaggi della globalizzazione: loro sapranno - SEMPRE - dove sei, a che ora, e in quale bar dell’aeroporto aspetterai la tua fetta di torta e il tuo caffé prima di svenire o dire cose di cui, un giorno non lontano, i tuoi compagni di viaggio proveranno a chiederti il senso – sempre che ci sia, e sia articolabile – sempre che i tuoi compagni di viaggio non svengano prima che tu abbia proferito verbo.

MEGLIO, COSÍ, CHIUDERE QUI PRIMA DI PENSARE MOLTO, MOLTO PEGGIO. FINE DELLA VERBALIZZAZIONE DEL PENSIERO SGRADEVOLE E PRIVO DI PATHOS.

martedì 21 novembre 2006

Truman Capote - A sangue freddo: indicazioni sul ruolo degli intellettuali

A sangue freddo, è il libro che sconvolse l’America. Lo scrisse Truman Capote, e racconta la storia di una famiglia massacrata a Holcomb, Kansas. Poteva rimanere cronaca per le pagine dei giornali, quella storia. Un trafiletto incastrato tra articoli lunghi, degni di nota, del «New York Times». Ma non andò così. Quelle righe le lesse Capote, nel suo salotto, e ne rimase folgorato. Capì subito che, in quelle righe, si nascondevano almeno due cose: materiale a sufficienza per scrivere un romanzo, e la possibilità di strappare Holcomb, un posto da qualche parte nel Kansas, dall’anonimato. Così, lo scrittore Capote, celebre per il suo Colazione da Tiffany, ritaglia l’articolo, chiama il «New York Times», si fa affidare il reportage di quella storia, recluta Nell Harper Lee come assistente e guardaspalle, e parte per il Kansas. Non è che sia ben visto, uno come Truman Capote, nel Kansas. Abiti stravaganti, maniere affettate, un suono della voce infantile, ostentato come segno di eleganza e differenza, stridono con il rigore calvinista di Holcomb, delle persone che lì vivono. Ma in quella sperduta parte del Kansas, rappresenta New York, Truman Capote, le sue follie, il suo incanto, e non tarda ad essere accettato. Per questo, quando è molto più facile scavare, Capote scava il cuore di Holcomb, e piano dissotterra storie, umori, indizi, in quel pezzo d’America, tutto ciò che avesse a che fare con il massacro che la cronaca nera del «New York Times» del novembre 1959 gli consegnò un giorno.

Il film parte da qui. Da uno scrittore, sullo sfondo grigio del Kansas, che insegue una storia. Bennet Miller, regista, ricostruisce gli anni ’50 di quella parte del mondo. E lo fa con precisione, senza una sbavatura. Costruisce Holcomb, e il suo grigiore, intorno alle gesta di Truman Capote. E in quella perfezione, si nasconde, Miller, senza farsi vedere, notare, come se la storia andasse da sé, seguendo Capote. Qui, in questo mimetismo, la forza e la debolezza del film. Forza: perchè Miller dispiega con maestria il mondo, i colori, in cui l’attore Philip Seymour Hoffman, Oscar 2006 per la Migliore Interpretazione Maschile, dà prova della sua bravura, della sua capacità di aderire alla perfezione ai gesti di Capote, al suono della sua voce, al suo modo di pensare e gestire le situazioni della vita. Ma allo stesso tempo, debolezza: perchè il film non dice di più di quello che vediamo, non ci dà modo di leggere in profondità un’epoca, un luogo, poiché è già tutto in ordine, spiegato, con il suo inizio, la sua fine, e in mezzo un attore da applausi che ridona corpo e vigore a Truman Capote. Cos’è, questo film, allora? Una lapide alla memoria di Capote, si potrebbe pensare. E anche qualcosa di più.

Forse c’è veramente dell’altro, in questo film. Forse potremmo pensare, Truman Capote – A sangue freddo, non come un film, ma come un monito: un consiglio, un’esortazione, un ammonimento, ad una classe specifica di persone. Gli intellettuali. Gente che per mestiere pensa, scrive, dice al mondo come il mondo dovrebbe girare. Schiacciamo per un attimo rewind nella nostra memoria e portiamo il film a capo. Truman Capote, scrittore e intellettuale, tra le infinite notizie che passano tra le righe e le pagine dei giornali, ne sceglie una, e la segue. Non ha paura, Truman Capote, di scendere dentro la realtà, di sporcarsi le mani in quella realtà. Arriva in un posto sperduto nel Kansas, e prova a mettere ordine agli eventi: per spiegare la realtà, per renderla chiara: per capirla, se comprenderla è impossibile. E, con la figura di Truman Capote che giganteggia sullo schermo, pensi che questo dovrebbero fare, gli intellettuali. Sporcarsi di realtà. Scavare la realtà. Dissotterrare dal cuore della realtà gli elementi, gli indizi, gli intrecci, che possono tornare utili alla comprensione del mondo. Forse, non è del tutto inutile, questo film, se ci ricorda questo, piuttosto che il tormento di uno scrittore che crede nella sua storia, nella sua scrittura. Servono idee, gente che le faccia circolare. È un compito mica da poco, essere intellettuali. Non è uno status da fregiare alle cene di gala. È un dovere.



domenica 19 novembre 2006

Di arte, mucche e altri bovini

La prima notte che arrivo a Lisboa, in giro per le strade, le piazze, è pieno di mucche. Ma non sporcano, non si muovono, tantomeno muggiscono. Stanno lì, in perfetto stile bovino, come se non ci fossero. A ruminare il tempo. Quelle mucche, Il Qui Presente, le ha già viste, e fotografate, a Parigi. Sono statue raffiguranti mucche, simulacri di mucche affidate ognuna ad una artista che ha potere contrattuale sulla mucca medesima e la decora/dipinge/affresca come meglio crede. In Francia, quella cosa lì, la chiamavano VACH’ART: l’arte delle mucche: e le statue erano disseminate dappertutto, nelle mise più stravaganti – ce n’era persino una a reggersi su due zampe, con tanto di tutù rosa, e un’espressione classica da danza classica, nonostante mansueti occhioni bovini. A Lisboa, lo stesso. Da quanto avevo letto, tempo fa, queste mucche transumano da una grande città all’altra. Hanno già compiuto il giro del mondo, forse. E stanno creando uno dei casini più pazzeschi della storia della zoologia. Molti finiranno con il credere le mucche animali migranti piuttosto che esseri stabili, sedentari, impiegati nei migliori caseifici. Comunque. La questione è un altra. Da qualche tempo si registra un movimento inverso. Prima erano le persone a muoversi verso l’arte, ad entrare nei suoi sistemi, ad accettare le sue tassonomie, a visitare i grandi luoghi di culto dell’arte: i musei. Oggi è il contrario. È l’arte a muoversi verso le persone, a scovarle nel loro ambiente quotidiano, a seguirle, catturare la loro attenzione. È come se l’arte, in uno scatto di sopravvivenza, avesse voluto abbandonare quelle grandi bare che sono i musei e la loro aria da lutto perenne. Il Bairro Alto, altro quartiere storico di Lisboa, a due passi dal centralissimo Chado, sembra confermare tutto questo. Ogni parete del quartiere è un fitto mosaico coloratissimo di segni, scritte, graffiti, stencil – figurine bidimensionali tracciate in vernici di solito mono o bi-cromatiche. È una tela a cielo aperto, il Bairro Alto, tela che si modifica e cambia giorno dopo giorno. E l’arte che si respira lì, proprio come le mucche, è molto pop, vagamente vintage, quasi tutta anti-, e molto molto post-: post Sessantotto, Ideologie, Avanguardie. Ed è la stessa cosa che ritrovi in giro per tutte le città del mondo. Come se ci fosse un movimento unico che abita le Reti e comunica e si sfida a distanze impensabili. Un’arte popolare molto globalizzata, in rotta di collisione con le accademie, che mastica fumetti e cinema, e che torna prepotentemente al figurativo dopo anni tragici di astratto e finti sacerdoti espressionisti e cagate simili. È arte che ritorna a dire qualcosa, a sfidare qualcuno, a porsi in contatto con persone comuni e con il loro mondo fatto di consumo & mass-media & stress & lavoro precario & vita incerta. Tecniche a parte, è l’idea formalizzata nel modo migliore, quella che si ricorda. Perchè, forse, più di ogni altra cosa, sono idee i segni, le scritte, i graffiti, gli stencil, e le mura immense enciclopedie del paradosso e del controsenso. Così, torna a respirare l’arte, di nuovo, chiamandoci direttamente in causa, interrogandoci e mettendoci alla prova. Nei musei, tra tanto splendore, sacerdoti e liturgie funerarie, di sicuro, i bovini, in coda e mansueti, eravamo NOI.

venerdì 17 novembre 2006

Punctum: istruzioni per l'uso

É il 1980. Roland Barthes non lo sa, ma scrive il suo ultimo libro. Il titolo è: “La camera chiara. Nota sulla fotografia”. Ovviamente, non è un libro qualsiasi. Non tanto perchè è l’ultimo di Barthes, non è questo a renderlo prezioso. Piuttosto perchè in quelle pagine è custodita, per sempre, un’illuminazione. Ci sono due modi per capire se un libro, il suo autore, sono fondamentali per noi. Il primo modo è di natura numerico-statistica: si può provare a contare il numero di volte che quel libro è citato, raccontato, consigliato, poi redigere statistiche e classifiche, e alla fine vedere quale libro riposa in cima a tutti quei numeri. Il secondo modo è più sottile, meno evidente: aprire il libro, leggerlo fino in fondo, e scovare tra una riga e l’altra modi esatti di nominare l’esperienza umana. I grandi libri, i loro autori, fanno proprio quello: nominare le esperienze, dare un nome alle cose. Se le cose hanno un nome, puoi conoscerle, da loro puoi difenderti. Sottraggono la conoscenza all’indeterminatezza, i grandi libri, i loro autori. Nomi precisi, con caratteri neri e indelebili, dove prima c’era una mappa bianca, senza alcun riferimento. L’esperienza umana, la consapevolezza dell’esperienza, sta tutta nella presenza di quei nomi inscritti sulla mappa.

Così, nel suo ultimo libro, Barthes formula per la prima volta due parole: studium e punctum. Provengono dal latino, quelle parole. E, nella loro sinteticità, definiscono il rapporto singolare che scaturisce dall’incontro dell’uomo con il mondo. Lo studium è il nostro accostarsi disinteressato al mondo: “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, senza nessuna intensità”. Mentre il punctum è il nostro concedersi al mondo quando il mondo si scaglia su di noi in tutta la sua potenza. È mondo che ferisce, il punctum , che percorre tutti i sensi, che ti turba, che esplode e deflagra dentro di te per l’intensità di quella particolare esperienza. Dice Barthes a proposito: “Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione. A causa dell’impronta di qualcosa, la foto non è più una foto qualunque. Questo qualcosa a fatto tilt, mi ha trasmesso una leggera vibrazione”. Prova a pensare a tutte le volte che vedendo un film, sentendo della musica, vivendo una situazione, qualcosa, senza spiegazione, all’improvviso, ti ha lasciato una sensazione fortissima di godimento, o al contrario di dolore. Quello è il punctum: quando tu e il mondo, nell’esperienza del mondo, diventate una cosa sola.

Questo blog, così, vuole essere questo: un elenco ragionato di questi momenti di intenso piacere o dolore durante la mia esperienza del mondo. Proverò a capire e comprendere perchè qualcosa, qualcuno, nel bene o nel male, mi ha colpito. E se non riuscito a capirlo e comprenderlo, semplicemente, lo racconterò. È una cosa molto soggettiva, il punctum. Ognuno puoi avere i suoi, nelle situazioni più diverse. Quindi, abbiate pazienza con me. Se qualcosa che racconto non vi quadra, scrivete pure. I commenti sono a vostra disposizione.