martedì 21 novembre 2006

Truman Capote - A sangue freddo: indicazioni sul ruolo degli intellettuali

A sangue freddo, è il libro che sconvolse l’America. Lo scrisse Truman Capote, e racconta la storia di una famiglia massacrata a Holcomb, Kansas. Poteva rimanere cronaca per le pagine dei giornali, quella storia. Un trafiletto incastrato tra articoli lunghi, degni di nota, del «New York Times». Ma non andò così. Quelle righe le lesse Capote, nel suo salotto, e ne rimase folgorato. Capì subito che, in quelle righe, si nascondevano almeno due cose: materiale a sufficienza per scrivere un romanzo, e la possibilità di strappare Holcomb, un posto da qualche parte nel Kansas, dall’anonimato. Così, lo scrittore Capote, celebre per il suo Colazione da Tiffany, ritaglia l’articolo, chiama il «New York Times», si fa affidare il reportage di quella storia, recluta Nell Harper Lee come assistente e guardaspalle, e parte per il Kansas. Non è che sia ben visto, uno come Truman Capote, nel Kansas. Abiti stravaganti, maniere affettate, un suono della voce infantile, ostentato come segno di eleganza e differenza, stridono con il rigore calvinista di Holcomb, delle persone che lì vivono. Ma in quella sperduta parte del Kansas, rappresenta New York, Truman Capote, le sue follie, il suo incanto, e non tarda ad essere accettato. Per questo, quando è molto più facile scavare, Capote scava il cuore di Holcomb, e piano dissotterra storie, umori, indizi, in quel pezzo d’America, tutto ciò che avesse a che fare con il massacro che la cronaca nera del «New York Times» del novembre 1959 gli consegnò un giorno.

Il film parte da qui. Da uno scrittore, sullo sfondo grigio del Kansas, che insegue una storia. Bennet Miller, regista, ricostruisce gli anni ’50 di quella parte del mondo. E lo fa con precisione, senza una sbavatura. Costruisce Holcomb, e il suo grigiore, intorno alle gesta di Truman Capote. E in quella perfezione, si nasconde, Miller, senza farsi vedere, notare, come se la storia andasse da sé, seguendo Capote. Qui, in questo mimetismo, la forza e la debolezza del film. Forza: perchè Miller dispiega con maestria il mondo, i colori, in cui l’attore Philip Seymour Hoffman, Oscar 2006 per la Migliore Interpretazione Maschile, dà prova della sua bravura, della sua capacità di aderire alla perfezione ai gesti di Capote, al suono della sua voce, al suo modo di pensare e gestire le situazioni della vita. Ma allo stesso tempo, debolezza: perchè il film non dice di più di quello che vediamo, non ci dà modo di leggere in profondità un’epoca, un luogo, poiché è già tutto in ordine, spiegato, con il suo inizio, la sua fine, e in mezzo un attore da applausi che ridona corpo e vigore a Truman Capote. Cos’è, questo film, allora? Una lapide alla memoria di Capote, si potrebbe pensare. E anche qualcosa di più.

Forse c’è veramente dell’altro, in questo film. Forse potremmo pensare, Truman Capote – A sangue freddo, non come un film, ma come un monito: un consiglio, un’esortazione, un ammonimento, ad una classe specifica di persone. Gli intellettuali. Gente che per mestiere pensa, scrive, dice al mondo come il mondo dovrebbe girare. Schiacciamo per un attimo rewind nella nostra memoria e portiamo il film a capo. Truman Capote, scrittore e intellettuale, tra le infinite notizie che passano tra le righe e le pagine dei giornali, ne sceglie una, e la segue. Non ha paura, Truman Capote, di scendere dentro la realtà, di sporcarsi le mani in quella realtà. Arriva in un posto sperduto nel Kansas, e prova a mettere ordine agli eventi: per spiegare la realtà, per renderla chiara: per capirla, se comprenderla è impossibile. E, con la figura di Truman Capote che giganteggia sullo schermo, pensi che questo dovrebbero fare, gli intellettuali. Sporcarsi di realtà. Scavare la realtà. Dissotterrare dal cuore della realtà gli elementi, gli indizi, gli intrecci, che possono tornare utili alla comprensione del mondo. Forse, non è del tutto inutile, questo film, se ci ricorda questo, piuttosto che il tormento di uno scrittore che crede nella sua storia, nella sua scrittura. Servono idee, gente che le faccia circolare. È un compito mica da poco, essere intellettuali. Non è uno status da fregiare alle cene di gala. È un dovere.



1 commento:

Anonimo ha detto...

Eccomi! Dunque dunque... che la presenza scenica di Seymour Hoffman valga tutto il film è indubbio. Ricordo a perfezione l'interpretazione del buon Capote, ma tutto il resto, a distanza di tempo, è ormai sfuocato.
Ho qualche vago ricordo di una fotografia solitaria e - chiaramente - molto fredda.
Le idee fanno muovere le immagini, ma poi, a loro volta, le immagini fanno muovere le idee. A tutti è permesso, ciascuno secondo la propria possibilità, di prendere queste due cose sul serio, di prendersene cura... ma ciò non può essere solo un dovere, quanto piuttosto una risposta, nel suo senso più concreto di responsabilità... e la responsabilità non è sempre doverosa.
(Ohmondieu! I tuoi post non è che si possono commentare in due righe! Poi 'sembra' che scrivo cose campate in aria :) ! La prossima volta ti scrivo solo che 'hai ragione bene bravo' per non perdermi nel labirinto degli spunti). 'noche y luz -